SECONDA PARTE
1848-1849
LA NOTIZIA
Il 21 settembre, primo giorno di primavera secondo il calendario di Miss Rose, ventilarono le camere, fecero prendere aria ai materassi e alle coperte, incerarono i mobili di legno e cambiarono le tende della sala. Mama Fresia lavò quelle di cretonne a fiori senza scomporsi, convinta che le macchie secche fossero d'orina di topo. Nel patio preparò grandi tinozze da bucato d'acqua calda con corteccia di quillay, lasciò in ammollo le tende per un giorno intero, le inamidò con acqua di riso e le fece asciugare al sole; poi due donne le stirarono e, tornate come nuove, furono appese, per dare il benvenuto alla nuova stagione. Nel frattempo Eliza e Joaquin, indifferenti alla turbolenza primaverile di Miss Rose, se la spassavano sulle tende di velluto verde, più morbide di quelle di cretonne. Ormai non faceva più freddo e le notti erano chiare. Gli incontri proseguivano da tre mesi e le lettere di Joaquin Andieta, costellate da locuzioni poetiche e da infocate dichiarazioni, si erano notevolmente diradate. Eliza coglieva l'assenza dell'innamorato, a volte abbracciava un fantasma. Nonostante l'angoscia del desiderio insoddisfatto e del peso opprimente di tanti segreti, la ragazza aveva recuperato una calma apparente. Trascorreva le ore del giorno impegnata nelle occupazioni di prima; dedicandosi ai suoi libri e agli esercizi di piano o indaffarata in cucina e nella stanza del cucito, senza dimostrare il minimo desiderio di uscite di casa, ma se Miss Rose glielo chiedeva, l'accompagnava con la buona disposizione di chi non ha niente di meglio da fare. Si coricava e si alzava presto, come sempre; aveva appetito e sembrava in salute, ma questi sintomi di perfetta normalità destavano tremendi sospetti in Miss Rose e Mama Fresia. Non le toglievano gli occhi di dosso. Diffidavano del fatto che l'ebbrezza d'amore fosse evaporata immediatamente, ma essendo trascorse diverse settimane senza che Eliza desse segni di turbamento, a poco a poco allentarono la sorveglianza. Forse le candele a sant'Antonio avevano sortito qualche effetto, pensò l'india; forse non era amore, dopotutto, pensò Miss Rose senza molta convinzione.
La notizia della scoperta dell'oro in California arrivò in Cile in agosto. Dapprima a diffondere la voce furono le bocche allucinate di navigatori ubriachi nei bordelli di El Almendral, ma qualche giorno più tardi il capitano della goletta Adelaida annunciò che a San Francisco metà dei suoi marinai aveva disertato.
"C'è oro dappertutto, si raccoglie a palate, si sono viste pepite grandi come arance! Con un minimo d'intraprendenza si può diventare milionari!" raccontò travolto dall'entusiasmo.
Nel gennaio di quell'anno, nelle vicinanze del mulino di un fattore svizzero, sulle rive dell'American River, un tal Marshall aveva trovato nell'acqua una scheggia d'oro. Quel frammento giallo che avrebbe scatenato la follia fu scoperto nove giorni dopo la firma del Trattato di Guadalupe-Hidalgo che decretò la fine della guerra tra Messico e Stati Uniti. Quando si diffuse la notizia, la California non apparteneva più al Messico. Prima che si venisse a sapere che quel territorio poggiava su un tesoro senza fine, nessuno era particolarmente interessato a esso; per gli americani era una regione di indiani e i pionieri preferivano conquistare l'Oregon, dove erano convinti che l'agricoltura desse frutti migliori. Il Messico lo considerava un covo di ladri e durante la guerra non si degnò di inviare le truppe per difenderlo. Poco tempo dopo Sam Brannan, editore di un giornale e predicatore mormone incaricato di diffondere la fede, percorreva le strade di San Francisco divulgando la buona nuova. Probabilmente non gli avrebbero creduto, vista la sua reputazione piuttosto discutibile - girava voce che avesse fatto cattivo uso del denaro di Dio e che quando la Chiesa mormone aveva preteso la restituzione avesse replicato che l'avrebbe reso... in cambio di una ricevuta firmata da Dio -, se le sue parole non fossero state avvallate da una boccetta piena di polvere d'oro, che passò di mano in mano mandando in visibilio la gente. Al grido all'oro! all'oro! tre uomini su quattro abbandonarono tutto e partirono per i giacimenti auriferi. Dovettero chiudere l'unica scuola perché non rimasero nemmeno i bambini. In Cile la notizia produsse lo stesso impatto. Il salario medio era di venti centavos al giorno e i giornali annunciavano che finalmente era stata scoperta El Dorado, la città sognata dai conquistatori, le cui strade erano pavimentate col prezioso metallo: "La ricchezza delle miniere è come quella dei racconti di Simbad o della lampada di Aladino; senza tema di esagerare si valuta che il guadagno giornaliero sia di un'oncia di oro puro," scrivevano i giornali e aggiungevano che ce n'era a sufficienza per arricchire migliaia di uomini per decenni. Il fuoco dell'avidità divampò immediatamente tra i cileni, che avevano anime da minatori, e il mese successivo iniziò la corsa verso la California. Inoltre si trovavano a metà strada rispetto a qualsiasi altro avventuriero che dovesse solcare l'Atlantico. Ci volevano tre mesi dall'Europa a Valparaìso e altri due per arrivare in California. La distanza tra Valparaìso e San Francisco non raggiungeva le settemila miglia, mentre dalla costa est del Nord America, passando per Capo Horn, erano quasi ventimila. E questo, come calcolò Joaquin Andieta, era un notevole vantaggio per i cileni, visto che i primi ad arrivare avrebbero preteso i filoni migliori.
Feliciano Rodriguez de Santa Cruz fece la stessa valutazione e decise di imbarcarsi immediatamente con cinque dei suoi migliori e più leali minatori dopo aver promesso loro una ricompensa come incentivo per convincerli ad abbandonare le famiglie e a lanciarsi in quell'impresa piena di rischi. Dedicò tre settimane alla preparazione di un bagaglio adatto per una permanenza di vari mesi in quella terra del Nord del continente che immaginava desolata e selvaggia. Aveva un abbondante vantaggio rispetto alla maggior parte degli incauti che partivano alla cieca, senza mezzi, spinti dalla tentazione di una fortuna facile ma senza la minima idea dei pericoli e delle fatiche dell'impresa. Non era disposto a spaccarsi la schiena lavorando come una bestia e per questo voleva viaggiare ben equipaggiato portando con sé servitori di fiducia, spiegò a sua moglie, che era in attesa del secondo figlio ma insisteva per accompagnarlo. Paulina pensava di imbarcarsi con due balie, il cuoco, una vacca e alcune galline che potessero fornire giornalmente latte e uova per le creature durante la traversata, ma una volta tanto il rifiuto del marito fu categorico. L'idea di partire per una simile odissea con tutta la famiglia a carico era un progetto completamente folle. Sua moglie aveva perduto il ben dell'intelletto.
"Come si chiamava quel capitano amico di Mr Todd?" lo interruppe Paulina nel bel mezzo della sua tiritera, mantenendo in equilibrio una tazza di cioccolata sulla prominenza del ventre, mentre mordicchiava un dolcetto di pasta sfoglia e latte condensato, ricetta delle clarisse.
"John Sommers intendi?"
"Quello che era stufo di navigare a vela e parlava di imbarcazioni a vapore."
"Proprio lui."
Paulina si mise a riflettere, continuando a portarsi alla bocca i pasticcini senza badare minimamente all'elenco dei pericoli che suo marito stava sciorinando. Era ingrassata e della gracile ragazza fuggita dal convento con la testa rasata rimaneva ben poco.
"Quanto c'è sul mio conto a Londra?" chiese alla fine.
"Cinquantamila sterline. Sei una signora molto ricca."
"Non lo sono abbastanza. Mi puoi prestare il doppio dell'importo a un interesse del dieci per cento pagabile in tre anni?"
"E ora cosa diavolo ti è venuto in mente? A cosa ti servono tutti questi soldi?"
"Per un vapore. Il vero affare non è l'oro, Feliciano, che alla fine della fiera è solo cacca gialla. Il vero affare sono i minatori. Hanno bisogno di tutto in California e pagheranno in contanti. Dicono che i vapori filano dritti, non devono sottostare ai capricci dei venti, sono più grandi e più veloci. I velieri appartengono al passato."
Feliciano continuò a lavorare ai suoi progetti, ma l'esperienza gli aveva insegnato a non sottovalutare le intuizioni finanziarie della moglie. Per diverse notti non riuscì a dormire. Passeggiava insonne per gli sfarzosi saloni della sua bella casa, tra sacchi di provviste e casse di attrezzi, barili di polvere da sparo e pile di armi per il viaggio, pesando e soppesando le parole di Paulina. Più ci pensava e più gli sembrava azzeccata l'idea di investire nei trasporti, ma prima di prendere una qualsiasi decisione si consultò con il fratello che era suo socio in tutti gli affari. Questi lo ascoltò a bocca aperta e quando Feliciano finì di spiegare la faccenda, si diede una manata sulla fronte.
"Perbacco, fratello! E non potevamo pensarci prima?"
Nel frattempo Joaquin Andieta, come migliaia di altri cileni della stessa età e di ogni condizione, sognava borse d'oro in polvere e pepite sparse per terra. Diversi suoi conoscenti erano già partiti, anche uno dei compagni della Libreria Santos Tornero, un giovane liberale che sparava a zero contro i ricchi ed era il primo a denunciare la corruzione del denaro, ma che non aveva saputo resistere al richiamo e se ne era andato senza salutare nessuno. Per Joaquin la California rappresentava l'unica possibilità di lasciarsi alle spalle la miseria, di portare via sua madre da quella casa e di curarle i polmoni malati; di piazzarsi davanti a Jeremy Sommers a testa alta e con le tasche traboccanti a chiedere la mano di Eliza. Oro... oro a portata di mano... Poteva vedere i sacchi del metallo in polvere, le ceste di pepite enormi, le banconote in tasca, il palazzo che si sarebbe fatto costruire, più solido e con più marmi del Club dell'Unione, per mettere a tacere i parenti che avevano umiliato sua madre. Si vedeva anche uscire dalla chiesa della Matriz al braccio di Eliza Sommers, gli sposi più felici del pianeta. Era solo questione di rischiare. Che futuro gli offriva il Cile? Nel migliore dei casi sarebbe invecchiato contando i prodotti che passavano sulla scrivania della Compagnia Britannica d'Importazione ed Esportazione. Non aveva niente da perdere visto che non possedeva comunque niente. La febbre dell'oro lo trasformò; perse l'appetito e il sonno, era sempre inquieto e scrutava il mare con gli occhi da pazzo. L'amico libraio gli prestò libri e cartine della California e un opuscolo sul lavaggio del metallo, che lesse avidamente mentre faceva conti forsennati nella speranza di farcela a pagarsi il viaggio. Le notizie sui giornali erano una tentazione irresistibile: "In una parte delle miniere chiamata dry diggins l'unico attrezzo necessario è un coltello comune per scrostare il metallo dalle rocce. In altre è già separato e si usa solamente un utensile molto semplice che consiste in un normale trogolo di assi, dal fondo rotondo, di una decina di piedi di lunghezza e due di larghezza nella parte superiore. Non essendo necessario capitale, la competizione nel lavoro è molto forte, e uomini che a stento potevano tirare la fine del mese, ora posseggono migliaia di pesos del prezioso metallo".
Quando Andieta menzionò la possibilità di imbarcarsi per il Nord, sua madre reagì male quanto Eliza. Senza essersi mai viste, le due donne pronunciarono esattamente le stesse parole: se te ne vai, Joaquin, io morirò. Entrambe tentarono di fargli vedere gli innumerevoli pericoli di una simile impresa e giurarono che preferivano mille volte la povertà irrimediabile al suo fianco a una fortuna illusoria con il rischio di perderlo. La madre gli assicurò che non se ne sarebbe mai andata da quella casa neanche se fosse stata milionaria, perché lì c'erano le sue amicizie e comunque non avrebbe saputo dove andare. E per quanto riguardava i suoi polmoni, non c'era nulla da fare, solo aspettare che finissero per scoppiare. Dal canto suo Eliza si dichiarò disposta a fuggire, nel caso non li lasciassero sposare; ma lui non le ascoltava, perso nei suoi vaneggiamenti, sicuro che un'opportunità come questa non si sarebbe più presentata e che lasciarsela scappare sarebbe stato un atto di imperdonabile codardia. Mise al servizio della nuova ossessione lo stesso entusiasmo prima impiegato nel propagandare le idee liberali, ma gli mancavano i mezzi per realizzare i progetti. Non poteva dare concretezza al suo destino senza una determinata somma con cui pagarsi il biglietto e munirsi del necessario. Si presentò in banca per chiedere un piccolo prestito, ma non aveva di che garantirlo e alla vista del suo aspetto da povero diavolo venne gelidamente respinto. Per la prima volta pensò di rivolgersi ai parenti di sua madre, con i quali fino ad allora non aveva mai scambiato una parola, ma era troppo orgoglioso per farlo. La visione di un futuro splendido non lo lasciava in pace, a fatica riusciva a portare a termine il lavoro, le lunghe ore alla scrivania si trasformarono in un castigo. Rimaneva con la penna in aria a guardare senza vedere la pagina bianca, mentre ripeteva a memoria i nomi delle imbarcazioni che avrebbero potuto portarlo al Nord. Le notti gli scivolavano via tra sogni burrascosi e veglie agitate, si svegliava con il corpo esausto e l'immaginazione in fermento. Commetteva errori da principiante, mentre intorno a lui l'esaltazione raggiungeva livelli di isteria. Tutti volevano partire e chi non poteva andare di persona stanziava fondi in imprese, investiva in compagnie fondate frettolosamente e mandava un rappresentante di fiducia sul posto, previo accordo circa la divisone dei profitti. Gli scapoli furono i primi a salpare; presto anche gli sposati abbandonarono i figli e, nonostante le truculente storie di malattie sconosciute, di incidenti terribili e crimini brutali, si imbarcarono senza guardarsi indietro. Gli uomini più pacifici erano disposti ad affrontare i rischi di pistolettate e pugnalate, i più prudenti abbandonavano la sicurezza conquistata in anni di sforzi e si lanciavano nell'avventura con il loro bagaglio di deliri. Alcuni investivano i propri risparmi nel biglietto, altri sostenevano le spese del viaggio lavorando come marinai o impegnando il loro lavoro futuro, ed erano talmente tanti a cercare di imbarcarsi che, nonostante le indagini giornaliere al molo, Joaquin Andieta non trovò posto in nessuna nave.
A dicembre non ce la fece più. Quando stava per, copiare il rapporto di un carico giunto in porto, come faceva scrupolosamente ogni giorno, alterò le cifre sul registro e poi distrusse i documenti originali di sbarco. Così, grazie a un gioco di prestigio contabile, fece sparire diverse casse di pistole e di proiettili provenienti da New York. Per tre notti di seguito riuscì a eludere la sorveglianza della guardia, a violare le serrature e a introdursi nella cantina della Compagnia Britannica d'Importazione ed Esportazione per rubare il contenuto di dette casse. Per farlo furono necessari diversi viaggi, perché il carico era pesante. Per prime si portò via le pistole nelle tasche e legate alle gambe e alle braccia sotto gli indumenti; poi fece sparire le pallottole in sacchetti. In diverse occasioni i guardiani che facevano la ronda di notte furono sul punto dì sorprenderlo, ma la sorte fu dalla sua e tutte le volte riuscì a squagliarsela in tempo. Sapeva di poter contare su un paio di settimane, prima che le casse venissero reclamate e il furto venisse scoperto; immaginava peraltro che sarebbe stato molto facile seguire il filo dei documenti mancanti e delle cifre modificate fino ad arrivare al colpevole, ma per quel momento sperava di trovarsi già in alto mare. E quando fosse stato in possesso del suo tesoro personale avrebbe restituito fino all'ultimo centesimo con gli interessi, visto che l'unica spinta a commettere tale misfatto, continuava a ripetersi, era stata la disperazione. Si trattava di una questione di vita o di morte: la vita, come lui la intendeva, era in California; rimanere intrappolato in Cile equivaleva a una morte lenta. Vendette una parte del bottino a basso prezzo nei bassifondi del porto e l'altra agli amici della Libreria Santos Tomero, dopo aver fatto loro giurare che avrebbero mantenuto il segreto. Quei ferventi idealisti non avevano mai tenuto un'arma in mano, ma da anni si preparavano a parole a un'utopica rivolta contro il governo conservatore. Sarebbe stato tradire le loro stesse intenzioni non comprare le pistole al mercato nero, soprattutto se si teneva conto del prezzo da occasione. Joaquin Andieta ne tenne due per sé, deciso a utilizzarle per farsi strada, ma ai compagni non disse nulla del suo progetto di andarsene. Quella notte, nel retrobottega della libreria, anche lui si portò la mano destra sul cuore e giurò in nome della patria che avrebbe dato la vita per la democrazia e la giustizia. Il mattino successivo comprò un biglietto di terza classe per la prima goletta che salpava in quei giorni e alcune sporte di farina tostata, fagioli, riso, zucchero, carne di cavallo secca e fette di salame che, razionate con parsimonia, sarebbero state appena in grado di sostentarlo durante la traversata. I pochi reales che gli avanzarono se li assicurò in vita con una fascia stretta.
La notte del 22 dicembre si congedò da Eliza e da sua madre e il giorno dopo partì per la California.
Mama Fresia scoprì le lettere d'amore casualmente; cogliendo le cipolle nel piccolo orto del patio, la forcella urtò contro la scatola di latta. Non sapeva leggere, ma fu sufficiente un'occhiata per capire di cosa si trattasse. Ebbe la tentazione di consegnarle a Miss Rose, perché le bastava tenerle in mano per sentirne la minaccia; avrebbe giurato che il pacchetto legato con un nastro battesse come un cuore vivo, ma l'affetto per Eliza ebbe la meglio sulla prudenza e invece di rivolgersi alla padrona rimise le lettere nella scatola da biscotti, la nascose sotto l'ampia gonna nera e si diresse sospirando verso la camera della ragazza. Trovò Eliza seduta su una sedia, con la schiena ritta e le mani sulla gonna come fosse in chiesa, intenta a guardare il mare dalla finestra con una tale angoscia che l'aria intorno a lei era densa e carica di premonizioni. Le mise la scatola sulle ginocchia e rimase vanamente in attesa di una spiegazione.
"Quell'uomo è un demonio. Ti porterà solo disgrazie," le disse infine.
"Le disgrazie sono già iniziate. Sei settimane fa è partito per la California e non mi sono ancora arrivate le mestruazioni."
Mama Fresia si sedette per terra con le gambe incrociate, come faceva quando era agitatissima, e cominciò a dondolarsi avanti e indietro, gemendo sommessamente.
"Taci, mamita, Miss Rose ci può sentire," supplicò Eliza.
"Un figlio delle fogne! Un huacho! E adesso, bambina mia, cosa facciamo? Cosa facciamo?" continuò a lamentarsi la donna.
"Mi sposerò."
"E come, se quello se ne è andato?"
"Dovrò andare a cercarlo."
"Oh Gesù dei cieli! Sei impazzita? Ti farò un rimedio e in pochi giorni sarai come nuova."
La donna preparò un infuso a base di borragine e una tisana di escrementi di gallina in birra scura, che diede da bere a Eliza tre volte al giorno; le prescrisse inoltre dei semicupi con zolfo e le mise degli impacchi di senape sul ventre: il risultato fu che ingiallì e iniziò a essere madida di una traspirazione appiccicosa che sapeva di gardenie marce, ma dopo una settimana non si era verificato nessun sintomo di aborto. Mama Fresia stabilì che senza dubbio si trattava di un maschio maledetto, e per questo si avvinghiava così alla pancia della madre. Una disgrazia simile era troppo grande per lei, c'era di mezzo il Diavolo, e solamente la sua maestra, la machi, poteva sperare di avere la meglio su una sventura di tale portata. Quello stesso pomeriggio chiese il permesso ai signori per allontanarsi e ancora una volta percorse a piedi il penoso cammino fino al crepaccio per presentarsi a testa china davanti alla vecchia stregona cieca. Le portò in dono due stampi di dolce di mela cotogna e un'anatra stufata al dragoncello.
La machi ascoltò gli ultimi sviluppi assentendo con aria infastidita, come se sapesse già cosa era successo.
"L'avevo detto, l'ostinazione è un male molto forte; si aggrappa al cervello e spezza il cuore. Di ostinazioni ce ne sono molte, ma quella d'amore è la peggiore."
"Puoi fare qualcosa per la mia bambina, perché butti fuori il huacho?"
"Per potere posso. Ma questo non la guarirà. Dovrà comunque seguire il suo uomo."
"È andato molto lontano a cercare l'oro."
"Dopo quella d'amore, l'ostinazione più grave è quella dell'oro," sentenziò la machi.
Mama Fresia pensò che sarebbe stato impossibile far uscire Eliza per portarla alla gola della machi, farla abortire e ritornare con lei a casa senza che Miss Rose se ne accorgesse. La sciamana aveva cent'anni ed erano cinquanta che non metteva il naso fuori dalla capanna, e quindi non si sarebbe certo recata a casa Sommers per occuparsi della ragazza. Doveva pensarci lei, non rimaneva altra alternativa. La machi le consegnò un ramo sottile di colihue e un unguento scuro e fetido, poi le spiegò come ungere la canna di quel decotto e inserirla in Eliza. Subito dopo le insegnò le parole dell'incantesimo che avrebbero eliminato il bambino del Diavolo e al contempo protetto la vita della madre. Il tutto andava realizzato la notte di venerdì, unico giorno della settimana autorizzato per l'operazione, la avvertì. Mama Fresia ritornò molto tardi, esausta, con il colihue e l'unguento sotto la mantella.
"Prega bambina mia, perché fra due notti ti farò il rimedio," annunciò a Eliza quando le portò a letto la cioccolata della colazione.
Il capitano John Sommers sbarcò a Valparaiso il giorno indicato dalla machi. Era il secondo venerdì di febbraio di un'estate rigogliosa. La baia ferveva d'attività con mezzo centinaio di barche ancorate e altrettante al largo in attesa del loro turno per avvicinarsi a terra. Come sempre, Jeremy, Rose ed Eliza ricevettero al molo quello zio straordinario che giungeva carico di novità e di regali. La borghesia, che si dava appuntamento per visitare le imbarcazioni e comprare di contrabbando, si mischiava agli uomini di mare, ai viaggiatori, agli stivatori e agli impiegati di dogana, mentre le prostitute appostate a una cena distanza facevano i loro conti. Negli ultimi mesi, da quando la notizia dell'oro aveva pungolato l'avidità degli uomini su ogni sponda del mondo, le navi arrivavano e salpavano a un ritmo forsennato e i bordelli non tenevano il passo. Le donne più intrepide, tuttavia, non si accontentavano del buon momento d'affari a Valparaìso e calcolavano quanto più denaro avrebbero potuto guadagnare in California, dove la percentuale era di duecento uomini per ogni donna, a quanto si diceva. Nel porto la gente inciampava in carri, animali e pacchi; si parlavano varie lingue, suonavano le sirene delle navi e i fischietti delle guardie. Miss Rose, con un fazzoletto profumato alla vaniglia sul naso, scrutava i passeggeri delle imbarcazioni in cerca del fratello prediletto, mentre Eliza aspirava l'aria a rapide boccate, cercando di separare e identificare gli odori. Il tanfo del pesce nelle grandi ceste al sole si mescolava al lezzo degli escrementi delle bestie da carico e al sudore umano. Fu lei la prima a vedere il capitano Sommers e provò un tale sollievo che quasi si mise a piangere. Lo aveva aspettato per mesi, con la certezza che solo lui avrebbe potuto comprendere l'angoscia del suo amore contrastato. Non aveva fatto parola di Joaquin Andieta a Miss Rose e men che meno a Jeremy Sommers, ma nutriva la certezza che lo zio navigatore, che niente poteva sorprendere o spaventare, l'avrebbe aiutata.
Appena il capitano mise piede sulla terraferma, Eliza e Miss Rose gli si scaraventarono addosso in tripudio; le prese entrambe per la vita con le sue robuste braccia da corsaro, le sollevò contemporaneamente e iniziò a girare come una trottola tra le grida di giubilo di Miss Rose e quelle di protesta di Eliza, che era sul punto di rimettere. Jeremy Sommers lo salutò con una stretta di mano, chiedendosi come fosse possibile che suo fratello non fosse cambiato per niente negli ultimi vent'anni e continuasse a essere lo stesso svitato di sempre.
"Cosa c'è, ragazzina? Hai proprio una brutta cera," disse il capitano esaminando Eliza.
"Ho mangiato frutta acerba, zio," spiegò appoggiandosi a lui per non cadere dalla nausea.
"So che non siete venute al porto per ricevermi. Siete qui per comprare profumi, vero? Vi dirò chi ha i migliori, direttamente dal cuore di Parigi."
In quel momento un forestiero gli passò di fianco e lo urtò accidentalmente con la valigia che portava in spalla. John Sommers si girò indignato, ma quando lo riconobbe esplose in una delle sue caratteristiche maledizioni scherzose e lo trattenne per un braccio.
"Vieni a presentarti alla mia famiglia, cinese," lo apostrofò cordialmente.
Eliza lo scrutò apertamente perché non aveva mai visto un asiatico da vicino e ora, finalmente, davanti ai suoi occhi c'era un abitante della Cina, quel favoloso paese che veniva citato in molti dei racconti dello zio. Si trattava di un uomo dall'età indefinibile, piuttosto alto se paragonato ai cileni, ma che accanto al corpulento capitano inglese sembrava un bambino. Camminava in modo sgraziato, aveva la pelle levigata, il corpo asciutto di un ragazzo e un'espressione antica negli occhi a mandorla. La circospezione solenne contrastava con la risata infantile che gli scoppiò dal fondo del cuore quando Sommers gli si rivolse. Indossava pantaloni sopra le caviglie, un'ampia camicia di tela grezza e una fascia in vita, dove portava un coltello; calzava scarpette minute, esibiva un cappello di paglia sgualcito e sulla schiena gli pendeva una lunga treccia. Salutò chinando il capo diverse volte, senza abbandonare la valigia e senza guardare nessuno in faccia. Miss Rose e Jeremy Sommers, sconcertati dalla familiarità con cui il fratello trattava una persona di rango indubbiamente inferiore, non sapendo come comportarsi risposero con un gesto breve e sbrigativo. Con orrore di Miss Rose, Eliza gli tese la mano, ma l'uomo finse di non vederla.
"Ecco Tao Chi'en; è il peggior cuoco che io abbia mai avuto, ma sa curare quasi tutte le malattie, per questo non me ne sono ancora sbarazzato," scherzò il capitano.
Tao Chi'en ripeté una nuova serie di inchini, esplose in un'altra risata, apparentemente immotivata, e immediatamente si allontanò retrocedendo. Eliza si chiese se capisse l'inglese. Alle spalle delle due donne, John Sommers sussurrò al fratello che il cinese poteva vendergli oppio della migliore qualità e polvere di corno di rinoceronte per l'impotenza, nel caso in cui un giorno o l'altro decidesse di abbandonare la cattiva abitudine del celibato. Nascondendosi dietro al ventaglio, Eliza ascoltò intrigata.
Quel pomeriggio a casa, all'ora del tè, il capitano distribuì i regali che aveva portato: schiuma da barba inglese, un set di forbici di Toledo e sigari avana per il fratello, pettini di tartaruga e uno scialle di seta ricamato di Manila per Miss Rose e, come sempre, un gioiello per la dote di Eliza. Questa volta si trattava di una collana di perle, che la ragazza accettò con commozione e che mise nel suo portagioie insieme agli altri monili che aveva ricevuto. Grazie alla testardaggine di Miss Rose e alla generosità di quello zio, il baule per le nozze si stava riempiendo di tesori.
"Questa consuetudine della dote mi sembra stupida, soprattutto se non c'è neanche un fidanzato in giro," sorrise il capitano. "O forse all'orizzonte ce n'è uno?"
La ragazza scambiò un'occhiata terrorizzata con Mama Fresia, che in quel momento era entrata con il vassoio del tè. Il capitano non disse nulla, ma si domandò come mai la sorella Rose non avesse notato i cambiamenti in Eliza. A quanto pareva, l'intuito femminile non serviva a granché.
Passarono il resto del pomeriggio ascoltando i meravigliosi racconti del capitano sulla California, benché dopo la fantastica scoperta non fosse andato da quelle parti, e di San Francisco potesse dire soltanto che si trattava di una borgata piuttosto misera, situata, però, nella baia più bella del mondo. La novità dell'oro era l'unico argomento di cui si parlava in Europa e negli Stati Uniti, ed era arrivato fino alle sponde dell'Asia. La sua imbarcazione era stracolma di passeggeri diretti in California, la maggior parte dei quali era all'oscuro delle più elementari nozioni minerarie e molti dei quali non avevano visto in vita loro il metallo nemmeno in un dente. Non c'era modo di arrivare comodamente o in fretta a San Francisco, la navigazione durava mesi nelle più precarie condizioni, spiegò il capitano, ma via terra, attraverso il continente americano, sfidando l'immensità del paesaggio e il pericolo degli indiani, il viaggio era più lungo e c'erano meno possibilità di salvarsi la pelle. Chi si avventurava in nave fino a Panama, attraversava con portantine l'istmo per fiumi infestati da bestiacce, viaggiava su muli nella foresta, e una volta giunto sulle coste del Pacifico saliva un'altra volta a bordo verso nord. Dove va misurarsi con un caldo atroce, rettili velenosi, zanzare, epidemie di colera e febbre gialla, oltre all'impareggiabile malvagità degli uomini. I viaggiatori che sopravvivevano illesi alle cadute delle cavalcature nei precipizi e ai pericoli delle paludi, si ritrovavano dall'altra parte vittime di banditi che li depredavano di tutti i loro beni, o di mercenari che si facevano pagare una fortuna per portarti a San Francisco, ammassati come bestiame su navi sgangherate.
"È molto grande la California?" chiese Eliza, cercando di impedire alla sua voce di tradire l'ansia del cuore.
"Portami una cartina e te la farò vedere. È molto più grande del Cile."
"E come si arriva all'oro?"
"Dicono che ce ne sia ovunque..."
"Ma se uno volesse, diciamo tanto per fare un esempio, trovare una persona in California..."
"Be', sarebbe piuttosto difficile," replicò il capitano studiando con curiosità l'espressione di Eliza.
"Vai da quelle parti nel tuo prossimo viaggio, zio?"
"Mi hanno fatto un'offerta allettante e credo che la accetterò. Alcuni investitori cileni vogliono costituire un servizio regolare di trasporto di merci e passeggeri per la California. Hanno bisogno di un capitano per il loro vapore."
"Allora ti vedremo più spesso, John!" esclamò Rose.
"Tu non hai esperienza di vapori," fece notare Jeremy.
"No, ma conosco il mare meglio di chiunque altro."
La notte del venerdì indicato, Eliza attese che la casa fosse in silenzio per dirigersi all'appuntamento con Mama Fresia nella casetta dell'ultimo patio. Abbandonò il letto e scese scalza, con indosso semplicemente una camicia da notte di barista. Non aveva idea del tipo di rimedio che le sarebbe stato somministrato, ma era certa che non avrebbe passato un bel momento; sapeva per esperienza che tutte le medicine erano sgradevoli, ma quelle dell'india erano addirittura schifose. "Non preoccuparti, bambina, ti darò tanta di quell'acquavite che quando ti sveglierai dalla sbronza non ti ricorderai del dolore. Però avremo bisogno di molti panni per raccogliere il sangue," le aveva detto la donna. Eliza aveva fatto spesso quel percorso al buio nella casa per ricevere l'amante e non aveva bisogno di prendere precauzioni, ma quella notte procedeva molto lentamente, indugiando, desiderando che venisse uno di quei terremoti cileni capaci di scaraventare tutto a terra pur di avere un buon pretesto per mancare all'appuntamento con Mama Fresia. Si sentì i piedi gelati e un brivido scorrerle lungo la schiena. Non capì se fosse di freddo, di paura per ciò che doveva Affrontare o se fosse l'ultimo avvenimento della. sua coscienza. Fin dal primo campanello d'allarme della gravidanza aveva sentito quella voce che la chiamava. Era la voce del bambino che in fondo al ventre reclamava il suo diritto alla vita, ne era certa. Cercava di non sentirla e di non pensarci, era in trappola poiché se si fosse iniziato a notare il suo stato, per lei non ci sarebbero stati né speranza né perdono. Nessuno avrebbe dimostrato comprensione per il suo errore né avrebbe avuto modo di recuperare l'onore perduto. Né le preghiere né le candele di Mama Fresia avrebbero impedito la disgrazia; il suo amante non si sarebbe girato a metà strada per tornare di corsa a sposarsi con lei prima che la gravidanza fosse palese. Ormai era troppo tardi. La terrorizzava l'idea di finire come la madre di Joaquin, marchiata da uno stigma infamante, espulsa dalla famiglia e costretta a vivere con un figlio illegittimo in povertà e solitudine; non avrebbe sopportato di essere ripudiata, preferiva morire una volta per tutte. E poteva benissimo morire quella stessa notte, per mano di quella donna buona che l'aveva allevata e che l'amava più di ogni altro al mondo.
La famiglia si era ritirata presto, ma il capitano e Miss Rose erano rimasti chiusi a bisbigliare per ore nella stanza del cucito. A ogni viaggio John Sommers portava dei libri per la sorella e partiva con misteriosi pacchetti che Eliza sospettava contenessero gli scritti di Miss Rose. L'aveva vista incartare con cura i suoi quaderni, quegli stessi che riempiva con la sua fitta calligrafia nei pomeriggi oziosi. Per rispetto o per una sorta di strano pudore nessuno li citava, come del resto non si menzionavano i suoi pallidi acquerelli. La scrittura e la pittura venivano considerate sentieri secondari, niente di cui vergognarsi sul serio, ma nemmeno di cui andar fieri. Le doti culinarie di Eliza ricevevano lo stesso indifferente trattamento da parte dei Sommers, che assaporavano i suoi piatti in silenzio e cambiavano argomento se gli ospiti li commentavano, ma tributavano invece immeritati applausi alle sue coraggiose esecuzioni al piano, anche se servivano a malapena ad accompagnare frettolosamente le canzoni altrui. Per tutta la vita Eliza aveva visto la sua protettrice con la penna in mano e non le aveva mai chiesto cosa stesse scrivendo, domanda che del resto non aveva sentito formulare né da John né da Jeremy. Era curiosa di sapere perché suo zio si portasse via con tanta discrezione i quaderni di Miss Rose ma, senza che nessuno glielo avesse detto, sapeva che si trattava di uno di quei segreti fondamentali su cui si basava l'equilibrio della famiglia e violarlo poteva far crollare con un soffio il castello di carte in cui vivevano. Era già da parecchio che Jeremy e Rose dormivano nelle loro camere e probabilmente dopo cena zio John era uscito a cavallo. Conoscendo le abitudini del capitano, la ragazza se lo immaginò a far baldoria con qualcuna delle sue frivole amichette, quelle stesse che lo salutavano quando con lui non c'era Miss Rose. Sapeva che ballavano e bevevano, ma siccome di prostitute aveva semplicemente sentito mormorare, non le venne in mente qualcosa di più sconcio. La possibilità di fare per soldi o per diporto le cose che lei aveva fatto per amore con Joaquin Andieta non la sfiorava minimamente. Secondo i suoi calcoli, lo zio non sarebbe rientrato se non a mattino inoltrato, motivo per cui si prese un terribile spavento quando, arrivata a pianterreno, sentì che qualcuno le afferrava il braccio al buio. Sentì il calore di un corpo grande contro il suo e un respiro di liquore e tabacco che le fece identificare immediatamente lo zio. Cercò di liberarsi dalla presa mentre valutava rapidamente le possibili spiegazioni per giustificare il suo essere li, a quell'ora, in camicia da notte, ma il capitano la condusse con fermezza nella biblioteca, illuminata appena da qualche raggio di luna che attraversava la finestra. La obbligò a sedersi sulla poltrona di cuoio inglese di Jeremy e si mise a cercare i fiammiferi per accendere la lampada.
"Molto bene, Eliza. Adesso mi racconti cosa diavolo ti sta succedendo," le ordinò con un tono mai usato prima con lei.
In un lampo di lucidità Eliza capì che lo zio non sarebbe stato suo alleato come aveva sperato. La tolleranza che ostentava questa volta non sarebbe valsa a nulla: se si trattava del buon nome della famiglia, si sarebbe lealmente schierato con i fratelli. In silenzio, la ragazza sostenne il suo sguardo, con aria di sfida.
"Rose dice che hai perso la testa per un mentecatto dalle scarpe rotte, è vero?"
"L'ho visto due volte, zio John. E qualche mese fa. Non conosco neppure il suo nome."
"Ma non l'hai dimenticato, vero? Il primo amore è come il vaiolo, lascia tracce indelebili. Vi siete visti da soli?"
"No."
"Non ti credo. Pensi che sia tonto? Chiunque potrebbe accorgersi di quanto sei cambiata, Eliza."
"Sono ammalata, zio. Ho mangiato frutta acerba e ho la pancia sottosopra. Stavo giusto andando alla latrina."
"Hai occhi da cagna in calore!"
"Perché mi insulti, zio?"
"Scusami, piccola. Non capisci che ti voglio molto bene e che sono preoccupato? Non posso permettere che ti rovini la vita. Rose e io abbiamo un progetto magnifico... Ti piacerebbe andare in Inghilterra? Posso sistemare le cose in modo che vi imbarchiate entro un mese, così avrete tempo di comprare tutto il necessario per il viaggio."
"In Inghilterra?"
"Viaggerete in prima classe, come due regine, e a Londra alloggerete in una pensione deliziosa a pochi isolati da Buckingham Palace."
Eliza capì che i due fratelli avevano già deciso il suo destino.
L'ultima cosa al mondo che desiderava era partire prendendola direzione opposta a quella di Joaquin, mettendo due oceani di distanza tra loro.
"Grazie, zio. Mi piacerebbe molto visitare l'Inghilterra," disse con la più grande dolcezza che riuscì a simulare.
Il capitano si servì un brandy dopo l'altro, accese la pipa e passò le successive due ore a enumerare i vantaggi della vita a Londra, dove una signorina come lei poteva frequentare la miglior società, andare ai balli, a teatro e ai concerti, acquistare i vestiti più belli e realizzare un buon matrimonio. Era già in età di farlo. E non le sarebbe piaciuto andare anche a Parigi o in Italia? Non si poteva morire senza aver visto Venezia o Firenze. Lui avrebbe soddisfatto tutti i suoi capricci, non l'aveva sempre fatto, d'altronde? Il mondo traboccava di uomini belli, interessanti e dalla buona posizione; l'avrebbe potuto verificare da sé non appena fosse uscita dal buco in cui era sepolta in quel porto dimenticato. Valparaìso non era il posto giusto per una ragazza così carina e ben educata come lei. Non era colpa sua se si era innamorata del primo che le era passato davanti, viveva rinchiusa. E in quanto a quel giovanotto, com'è che si chiamava? Dipendente di Jeremy, no?, presto se lo sarebbe dimenticato. L'amore, garantì, muore inesorabilmente per combustione interna o viene estirpato alla radice con la lontananza. Nessuno meglio di lui poteva consigliarla: nel suo piccolo era un esperto in quanto a distanze e amori trasformati in cenere.
"Non so di cosa stai parlando, zio. Miss Rose si è inventata un romanzo rosa partendo da un bicchiere di succo d'arancia. È venuto un tizio a lasciare dei colli, gli ho offerto una bibita, l'ha presa e poi se ne è andato. Questo è quanto. Non è successo niente e non l'ho più rivisto."
"Se è andata come dici, sei fortunata; non dovrai strapparti questa fantasia dalla testa."
John Sommers continuò a bere e a parlare fino all'alba, mentre Eliza, rannicchiata nella poltrona di cuoio, si abbandonava al sonno pensando che, dopo tutto, il cielo aveva ascoltato le sue preghiere. Non era stato un provvidenziale terremoto a salvarla dall'orribile rimedio di Mama Fresia: era stato suo zio. Nella casupola del patio l'india aspettò per tutta la notte.